XVIII
Guerra di religione e storie di ostaggi
Quattro «mercenari» in Iraq
Giuseppe De Benedictis è un signore di 43 anni, «non alto e non magro, occhi affilati come quelli di un orientale», secondo la descrizione dell’inviato del «Corriere della Sera» Carlo Vulpio. Fa il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Bari, ha una bella collezione di pistole moderne e ne porta sempre una con sé. Per negare il permesso di espatrio e decidere gli arresti domiciliari per Giampiero Spinelli, arruolatore di guardie del corpo in Iraq, ha scritto che i quattro italiani sequestrati il 12 aprile 2004 erano «mercenari» e «veri e propri fiancheggiatori delle forze della coalizione e questo spiega, se non giustifica, l’atteggiamento dei sequestratori nei loro confronti».
Il tribunale del riesame aveva cancellato il provvedimento, ma quando, la sera di giovedì 20 ottobre 2004, se ne conobbero i dettagli, l’impressione fu enorme. «Il manifesto» fu tra i pochi a rallegrarsene. Uomini di valore ironizzò a tutta pagina e, nel sommario, aggiunse: «Un’ordinanza del gip di Bari … infligge un duro colpo al mito degli ostaggi trasformati in eroi». Altri si indignarono. Il «Corriere della Sera», per esempio, titolò Un lessico da brivido un corsivo di prima pagina. «L’espressione “fiancheggiatori”» scrisse il giornale di Stefano Folli «in Italia viene riservata spesso a chi aiuta i terroristi. E ancora di più, induce a riflessioni amare quella successione di verbi, “spiega, se non giustifica”, che sembra ignorare un dettaglio: oltre al sequestro in sé, uno degli ostaggi, Quattrocchi, è stato assassinato.»
Furono in molti a deplorare l’ordinanza, anche se il giudice disse di essere stato frainteso. Le sue parole riaprirono una ferita antica e mai rimarginata: quei quattro italiani meritavano solidarietà? Meritava apprezzamento quel Fabrizio Quattrocchi che, prima dell’esecuzione, disse: «Adesso vi faccio vedere come muore un italiano»? O non c’era posto per loro nell’animo di chi, nell’autunno successivo, aveva trepidato per la sorte delle due Simone e pianto per l’esecuzione, barbara e incomprensibile, di Enzo Baldoni e, un po’ meno, per quella dell’italo-iracheno dimenticato, Ayad Anwer Wali?
I compagni di sventura di Quattrocchi (35 anni, siciliano trapiantato a Genova) si chiamano Maurizio Agliana (37 anni, Prato), Umberto Cupertino (35 anni, Sammichele di Bari), Salvatore Stefio (34 anni, Lentini, provincia di Siracusa). I quattro hanno alle spalle storie diverse. Quattrocchi era il veterano del gruppo. Lavorava per l’agenzia di investigazioni Ibsa di Genova, aveva fatto la guardia del corpo e, da novembre, si trovava in Iraq per svolgere questo lavoro di «sicurezza». Si è detto che volesse mettere qualche soldo da parte per sposarsi con Alice, la fidanzata. Per Agliana e Cupertino, invece, l’incarico iracheno era il primo ad alto rischio. Agliana, noto per il suo impegno di volontario nelle Misericordie e nella Protezione civile, si occupa soprattutto di sicurezza nelle discoteche. Cupertino è di professione meccanico, e nessuno immaginava che la sua passione per le arti marziali l’avrebbe portato così lontano. Quella di Salvatore Stefio è tutt’altra storia. L’ex paracadutista della Folgore è di gran lunga l’elemento di maggior caratura professionale. Presidente di una società dal nome altisonante, la Presidium International Corporation, con sede nelle isole Seychelles, ha svolto missioni in Croazia e in Nigeria, ed è l’uomo chiave della vicenda. «Ho incontrato parecchie situazioni difficili nella mia attività» mi dice Stefio, al quale è difficilissimo strappare più di qualche sillaba. «Rischio personale? Molto raramente, ma è capitato.»
«La Presidium di Stefio» mi racconta Agliana «svolge lavori impegnativi. Elabora analisi di rischi per società multinazionali, prepara piani di evacuazione per società ad alto rischio. Stefio ci ha contattato e ci ha procurato un contratto con la società di Valeria Castellani, un’italiana che vive a Baghdad, la Dts Llc, da non confondere con un’altra Dts che è controllata dalla Cia. All’inizio i sequestratori pensavano che fossimo spie proprio per questa coincidenza. La società della Castellani è registrata in Nevada, e non so esattamente di cosa si occupi.»
La Castellani è una giovane vicentina, ha lavorato a Kabul per l’organizzazione umanitaria Intersos, poi ha aiutato l’agenzia Macondo a costruire una scuola in Angola e, infine, si trova da tempo in Iraq dove svolge compiti apparentemente incompatibili: nel settembre del 2003 era a Bassora con le insegne di «Un ponte per…», l’organizzazione di volontariato di cui si occupavano Simona Pari e Simona Torretta, che ha una chiara connotazione antiamericana; è stata presente a fianco di Saddam Hussein durante il lungo embargo che ha diviso la prima guerra del Golfo dalla seconda e, in ogni caso, è contraria all’attacco di George W. Bush. Al tempo stesso arruolava gente per garantire sicurezza a chi, collaborando con gli americani, lavora per ricostruire il paese.
«La mia società Presidium» mi racconta Stefio «ha consigliato alcune persone alla Castellani, le ha portate giù e la Dts le ha contrattualizzate.» «Fino al nostro arrivo a Baghdad» mi racconta Agliana «non ho avuto alcun rapporto diretto con la Castellani. Siamo tuttavia partiti con un contratto della Dts che prevedeva un servizio di scorta per un dirigente di una società, non ho capito se americana o inglese. Era un contratto quadro. Arrivati in Iraq, avremmo potuto acquisire eventualmente nuovi clienti. Con me, Stefio e Cupertino sono partiti anche altri due italiani, Giampiero Spinelli e Dridi Forese. A Baghdad abbiamo incontrato la Castellani e Paolo Simeone, un altro italiano che lavora con lei e che avrebbe dovuto far parte del nostro gruppo operativo. [Simeone, con un passato di artificiere nel battaglione San Marco, era legato sentimentalmente alla Castellani e, in Iraq, si occupa di reclutare personale per operazioni di sicurezza.] Credo che anche la Castellani avesse compiti operativi. Ci sono altri italiani – ne conosco cinque o sei – che lavorano per diverse società e sono tuttora lì. Gente che in Italia rischiava di fare l’usciere. In dieci avremmo dovuto proteggere una persona.»
Un sequestro fantasma prima del sequestro
I cinque – Stefio, Agliana, Cupertino, Forese e Spinelli (Quattrocchi è già a Baghdad) – partono per l’Iraq il 4 aprile, domenica delle Palme. Arrivano in aereo ad Amman e, tre ore dopo, sono a Baghdad. «Ci danno una buona dotazione di armi leggere, professionali» mi racconta Agliana. «Lo stipendio? A seconda del ruolo e dell’esperienza, da 7000 a 15.000 dollari al mese. Arriviamo giù, dunque, cominciamo a studiare le carte per la protezione di questo dirigente, ma il cliente non arriva e l’impegno salta. La Dts stava già facendo dei lavori e doveva portarli avanti. Ma ormai eravamo in troppi. Spinelli e Forese si fermano per fare un lavoro di sicurezza all’hotel Babylon [lo stesso frequentato dalle due Simone]. Stefio, Cupertino e io decidiamo di tornare in Italia. Aspettiamo alcuni giorni per attivare le procedure e il 12 – lunedì dell’Angelo – partiamo. Ci accompagna Quattrocchi, che al confine con la Giordania deve prendere in consegna le nostre armi e tornare indietro. Simeone si occupa di trovare le auto: siamo d’accordo che ne servono due. Ne arriva una sola, una grande jeep con un autista iracheno. Quattrocchi chiede chiarimenti, Simeone dice che va bene così. Partiamo per la statale numero 10. Alla periferia di Baghdad facciamo una deviazione perché la strada è dissestata, quando ci ferma un folto gruppo di uomini molto bene armati.» È il sequestro.
Facciamo un passo indietro. Tre giorni prima del rapimento, il 9 aprile, l’agenzia inglese Reuters lancia alle 16.02 un dispaccio: «Ribelli iracheni dicono di aver sequestrato sei stranieri, quattro italiani e due americani. Due italiani sono stati portati in una moschea. Hanno gridato “Italiani, italiani!” quando i rapitori hanno aperto il fuoco».
La notizia viene seccamente smentita in Italia: i nostri servizi sostengono che l’informatore della Reuters non ha assistito al sequestro, ma ha piuttosto riferito qualcosa sentito da altri. Qualcosa. In realtà, almeno in parte, la notizia è verosimile e, in ogni caso, attraverso di essa si possono mettere in relazione alcune circostanze specifiche. Autorevoli esponenti sciiti dicono infatti di aver appreso che quattro persone, tra cui alcuni italiani, sarebbero stati intercettati quello stesso giorno da gruppi di guerriglieri iracheni e trattenuti in una moschea nei pressi di Abu Ghraib, sorvegliati a vista da una quarantina di uomini armati. Durante la notte, sarebbero stati trasferiti altrove. Gli sciiti non ne sanno di più: hanno provato a mettersi in contatto con i rapitori, ma non ci sono riusciti. La vicenda non ha avuto in seguito altri riscontri.
Nelle stesse ore, comunque, qualcosa di simile accade a due nostri connazionali, provvisti di passaporto italiano e di documenti di accesso alla zona verde regolamentata dalla Cpa, la coalizione guidata dagli Stati Uniti. I due stanno percorrendo la strada, a tratti interrotta, che da Baghdad porta a Falluja quando vedono colonne di fumo e sentono degli spari. Invertono la marcia, ma sono subito fermati da un gruppo armato (verosimilmente uno dei tanti check-point volanti che le varie fazioni utilizzano per un più efficace controllo del territorio). Mentre i primi guerriglieri li trattengono per controllare i documenti, sopraggiunge un altro gruppo armato che fa salire gli italiani su un pulmino «scuolabus» e li conduce in una vicina moschea. Nuovo esame dei documenti e interrogatorio da parte di uno sceicco che dice ai due italiani di non preoccuparsi. Questi, però, vengono presi in consegna da un terzo gruppo di guerriglieri, che li trasferisce in un altro luogo dove sono interrogati da alcuni uomini con il volto coperto dalla kefiyah. Nuovo trasferimento e terzo interrogatorio. Con visibile sollievo, i due italiani si vedono restituire i documenti. «Potete andare» dicono i guerriglieri. È ormai sera, non ci sono automobili disponibili e i due sentono l’eco dei combattimenti. Sono dunque invitati a fermarsi per la notte, durante la quale ascoltano alla televisione la notizia del rapimento di alcuni italiani, forse appartenenti all’ambasciata di Baghdad. Di chi si trattava? «E se fossimo noi?» si domandano. Chiedono informazioni ai padroni di casa, che gli rispondono di non prestare orecchio alle varie notizie diffuse senza controllo. Uno degli arabi dice: «Ci sono collaboratori della stampa “prezzolati” [usò proprio questa parola] che, per pochi soldi, sono pronti a dichiarare qualunque cosa voglia il committente». Trascorsa la notte, i due vengono accompagnati a domicilio da auto offerte dai padroni di casa.
«Vi faccio vedere come muore un italiano»
Torniamo ai quattro italiani sequestrati per davvero. Vengono presi a nordovest di Baghdad e portati alla periferia meridionale della città seguendo il percorso più lungo, in senso orario. L’autista che li accompagna scompare e i nostri servizi segreti sono subito dell’opinione che la fornitura della jeep al posto delle due auto previste non sia stata casuale. Nei 58 giorni del sequestro gli italiani vengono spostati più volte, fuori e dentro la stessa area, visto che la scuola dove poi sarebbero stati liberati si trova a sud di Baghdad.
«Impiegammo mezz’ora per arrivare dal posto del sequestro alla prima prigione» mi racconta Agliana. «Fummo subito bendati e incatenati. E cominciarono gli interrogatori.» Molto duri, almeno all’inizio. I terroristi scelgono come interlocutore privilegiato Stefio: parla inglese meglio degli altri e, in qualche modo, è stato il loro arruolatore. Stefio non nega mai questo ruolo. Viene immediatamente interrogato in inglese da una persona molto decisa, con il piglio del militare, che fa domande dirette, precise. Perché viene ucciso Quattrocchi e non Stefio? Perché ha con sé i documenti più compromettenti: il badge della coalizione lo ha fatto passare fin dal primo momento per «americano», e un porto d’armi per l’Iraq non migliora la sua situazione. Viene eliminato subito, dopo il primo interrogatorio. «Eravamo legati e sdraiati in terra» mi dice Agliana. «Vennero in due o tre, fecero cenno a Quattrocchi di alzarsi e lo portarono via. Abbiamo visto che non tornava e non ne abbiamo più parlato, sperando in cuor nostro che fosse vivo per costruirci un’illusione anche sulla nostra sorte.» «Avevamo paura di parlarne» mi confessa Stefio. «Potevamo essere intercettati. Ci interrogavamo con lo sguardo, con mezze parole. Cercavamo di allontanare l’idea che fosse morto, pensando a noi stessi.»
Lo sguardo di Quattrocchi è il più fiero, quando l’indomani del sequestro, il 13 aprile, viene trasmesso il video in cui i quattro appaiono con i passaporti in mano, scortati dagli uomini in nero che, nei mesi successivi, diventeranno tragicamente famosi come spietati tagliagole. La notizia dell’assassinio arriva la sera del 14 aprile. La televisione del Qatar al- Jazeera annuncia che uno degli ostaggi italiani è stato ucciso e afferma di essere in possesso di un video che non verrà mai trasmesso, né mai consegnato all’autorità giudiziaria italiana che si è mossa per via diplomatica. (Al-Jazeera è di proprietà dell’emiro del Qatar, amico dell’Italia e dell’Occidente. Ma, in nome della libertà di stampa, il governo di quel paese respinge la richiesta italiana.)
Quando arriva la notizia che un ostaggio italiano è stato ucciso, nello studio di «Porta a porta» sta per andare in onda una trasmissione a cui intervengono il ministro degli Esteri Franco Frattini e Francesco Rutelli. Sono presenti anche la sorella di Agliana, Antonella, e il fratello di Cupertino, Francesco. Collegato da Cesenatico, con la sua bandiera tricolore, Angelo Stefio, padre di Salvatore e carabiniere in pensione.
I due famigliari vengono accompagnati subito in un salottino riservato perché la notizia possa essere comunicata con le necessarie cautele, quando squilla il cellulare di Francesco Cupertino. È un giornalista, che racconta tutto. Nel frattempo la Farnesina incarica il nostro ambasciatore a Doha, Giuseppe Maria Buccino Grimaldi, di recarsi subito nella sede di al-Jazeera per accertarsi che la notizia sia fondata. Al diplomatico viene mostrato il filmato dell’esecuzione: egli è in grado di identificare Quattrocchi e di ascoltare la frase che diventerà famosa. Il ministero degli Esteri afferma di aver ricevuto il rapporto da Doha intorno alle 23.20.
Dopo la mezzanotte, durante una pausa pubblicitaria, vengo avvertito da Renato Farina, vicedirettore di «Libero», che un redattore di al-Jazeera gli ha comunicato il nome della vittima: Fabrizio Quattrocchi. Chiedo al ministro Frattini se alla ripresa del programma, di lì a pochi istanti, potrà confermare la notizia. Frattini risponde di sì. I famigliari sono stati avvertiti? Sì, dice il ministro. («Egli ha ritenuto infatti in assoluta fede» si legge nella risposta scritta a un’interrogazione parlamentare sull’argomento «che la comunicazione alla famiglia fosse già pervenuta, considerando il tempo trascorso fra il momento del riconoscimento, la comunicazione alla struttura ministeriale e il momento dell’annuncio.») Alla ripresa della trasmissione, mandiamo in onda una telefonata di Farina che conferma quanto mi aveva appena anticipato e la risposta di Frattini nei termini concordati. Soltanto l’indomani scopriremo che i famigliari di Quattrocchi hanno saputo da noi il terribile epilogo del sequestro del loro congiunto.
«Stiamo eseguendo la condanna a morte»
I tre superstiti cambiano spesso prigione: sei o sette volte. Si allontanano e si avvicinano a Baghdad. «Le nostre celle si rimpicciolirono progressivamente» mi racconta Agliana. «Abbiamo trascorso un periodo interminabile in un gabinetto di due metri per due, senza mai essere accompagnati fuori. Lì mangiavamo quel po’ che ci davano, lì facevamo i nostri bisogni. Eravamo sempre legati con catene, manette, fascette. Qualche carceriere ci lasciava le braccia legate davanti, altri ce le serravano dietro la schiena. Qualcuno più generoso ogni tanto ci toglieva per un po’ le manette, sempre però con le armi puntate. Altri non volevano saperne. In 58 giorni ci hanno consentito di lavarci soltanto due volte, nell’ultima settimana. Ogni tanto cercavamo di parlare con loro, per capire quanta pressione avessero intorno. Li sentivamo ora tranquilli, ora nervosi. Alcuni erano interessati a conoscere com’è vissuto in Occidente il problema religioso. Ironizzavano sul cristianesimo: voi parlate di Dio Padre, ma quale padre farebbe morire in croce il proprio figlio? Non ci rimproveravano più di tanto di essere infedeli, ma provavano a convertirci. Perché non abbracciate la fede islamica?, ci chiedevano. Hanno parlato soltanto un paio di volte della nostra sorte. Un giorno per dirci che al governo italiano non importava niente di noi. Un altro per dire che una donna di nome Antonella [la sorella di Agliana, che assiste al nostro colloquio] aveva fatto un appello ad al-Jazeera. Ogni tanto provavamo a sondare il loro umore: quando si va via? E qualcuno ci rispondeva: fra tre, quattro giorni you go to Italy. Ci avevano tolto l’orologio, ma sapevamo perfettamente che giorno e che ora fossero. I nostri pensieri? Quel che avevamo lasciato in Italia, le parole non dette, le cose non fatte. Ma cercavamo di restare aggrappati alla vita sforzandoci di capire ogni piccolo cambiamento in ciò che ci circondava, per poterlo eventualmente sfruttare. Abbiamo cercato, soprattutto, di non cedere psicologicamente. Ho pianto una sola volta, ma mi sono ripreso subito. E quando la stessa cosa è capitata a Stefio e a Cupertino, gli davo pacche sulla testa perché tornassero in sé e riacquistassero il controllo della situazione. Certo, ogni volta che ci chiamavano per cambiare prigione, ciascuno di noi, in silenzio, pensava che avremmo potuto essere uccisi.»
Mai vista gente che parlasse italiano? «A dire il vero» mi risponde Agliana «nella primissima fase qualcuno che diceva qualche parola in italiano c’era. Poi più nulla. I nostri carcerieri non hanno mai indossato la divisa. Venivano sempre con le tute nere integrali che tanto terrore hanno seminato nei mesi successivi.» (Antonella Agliana mi dice che ogni volta che le vede in televisione sta male.)
I tre prigionieri passano per le mani di un numero assai elevato di persone, quaranta o cinquanta, ma dal gruppo emergono soprattutto due uomini. Il primo è il militare di cui abbiamo detto. Il secondo ha una formazione ideologico-religiosa più marcata. Parla inglese e anche francese, e sembra di origine maghrebina. Conosce l’informatica, fruga nel computer di Stefio. (Secondo la Castellani, è uno degli elementi che può averlo – per errore – compromesso.) È probabilmente lo stesso individuo che, sotto il nome di Abu Yussuf, rilascia un’intervista a Hala Jaber, una giornalista di origine libanese che lavora per il «Sunday Times». Nel suo articolo la Jaber non chiarisce, naturalmente, dove è stata fatta l’intervista, e fornisce dettagli mai apparsi sui giornali. Gli investigatori chiedono di interrogarla per rogatoria in Gran Bretagna e intanto si convincono che è stato Abu Yussuf a uccidere Quattrocchi o a riprenderlo in un video.
I sequestratori hanno girato cinque video, e ne sono andati in onda tre. Il primo è quello in cui Quattrocchi è ancora vivo e tutti i rapiti mostrano il passaporto. Nel secondo, Stefio, Cupertino e Agliana mangiano del riso («Mangiavamo soltanto quando dovevamo essere ripresi» mi rivela Agliana). Nel terzo, come nel primo, non mangiano.
E gli altri due video? Il primo ha una storia molto strana. Stefio ha in mano un bigliettino scritto in italiano. Al-Jazeera entra in possesso del filmato, ma non lo manda in onda, nel timore di farsi tramite di un segnale convenuto. Il secondo video inedito è anche l’ultimo. Viene girato nella prima settimana di giugno (la liberazione avverrà l’8): i tre dicono di nuovo il loro nome e mostrano il passaporto. Niente appelli né richieste. Probabilmente i terroristi hanno deciso di ammazzarne almeno un altro. Il 6 giugno, infatti, su un sito viene trovato un messaggio datato 5 giugno in cui (ricordate il caso Moro?) viene comunicata una cosa ambigua, del tipo «Stiamo eseguendo la condanna a morte». Ma, a questo punto, qualcuno dei terroristi deve aver cercato di rinviare l’esecuzione. Gli investigatori sono convinti che questo video sia stato girato al momento dell’ultimo passaggio di consegna dei prigionieri e che del gruppo facesse già parte l’uomo che sarà il tramite per la liberazione degli ostaggi. (Ci si è sempre chiesti come sia possibile un uso così rischioso di Internet e, soprattutto, come si possa accedere a siti mai prima conosciuti scoprendovi subito minacce e rivendicazioni. In realtà, gli specialisti di polizia e carabinieri passano il giorno e la notte entrando in decine e decine di siti che – registrati magari a Seattle o a Toronto – vengono alimentati da un qualsiasi Internet Café di Baghdad.)
Tra servizi segreti e Croce Rossa
Facciamo ora un altro passo indietro. Già prima della guerra i servizi segreti italiani (Sismi) erano, dopo quelli francesi, i più introdotti in Iraq. La Francia aveva grossi interessi petroliferi con Saddam Hussein ed era perciò molto presente nel paese. Con lo scoppio del conflitto e la caduta del regime, tante cose sono cambiate: i francesi si sono trovati in difficoltà e la nostra presenza si è consolidata. «Abbiamo scoperto l’acqua calda: usavamo informatori iracheni» mi dice una fonte. «Alcuni li abbiamo avvicinati in Italia, altri sul posto. Avevamo sperimentato la stessa procedura in Pakistan e in Afghanistan: aveva funzionato.»
Naturalmente, i nostri servizi erano più forti nella provincia di Dhi-Qar, di cui fa parte Nassiriya. A Baghdad, dove occorreva tenere d’occhio soltanto la Croce Rossa e l’ambasciata, c’erano prevalentemente carabinieri dei reparti speciali. Ogni tanto viene rapito qualche occidentale, magari soltanto per poche ore. Capita a Tony Capuozzo, il bravissimo inviato del Tg5. Capita ad altri. Non vengono più nemmeno denunciati i sequestri lampo di tanti bambini, rilasciati per 200-300 dollari.
Quando avviene il sequestro dei nostri quattro connazionali, le prime informazioni lo attribuiscono a criminali comuni. Poi viene ammazzato Quattrocchi, e si capisce che dietro l’omicidio c’è una mano diversa. Subito dopo il delitto, giunge la notizia che, se il governo non avesse ritirato le truppe, i tre superstiti sarebbero stati uccisi a distanza di 48 ore l’uno dall’altro. I servizi tranquillizzano però palazzo Chigi. Un informatore ha assicurato che qualcuno li ha visti vivi. Altre due conferme in questo senso sarebbero arrivate anche nelle settimane successive. «Era nettissima la sensazione che i nostri rapitori volessero condizionare pesantemente la politica estera italiana» mi racconta Stefio. «Io sono un patriota e questo mi dava moltissimo fastidio.»
Lunedì 19 aprile, una settimana dopo il sequestro, qualcuno avverte i nostri servizi che i tre sono custoditi in una casa. Nessuno, tuttavia, ha visto gli italiani, ed è chiaro che la loro custodia è passata di mano. I servizi a questo punto contattano l’assemblea degli ulema, il consiglio dei «dotti islamici», la massima autorità religiosa sunnita. Martedì 20 aprile Harith al-Dhari e il suo vice al-Kubaisi incontrano il nostro ambasciatore a Baghdad Gianludovico De Martino. Viene filmato il colloquio durante il quale gli iracheni attaccano gli americani e il diplomatico se la cava con frasi di circostanza: è la condizione per proseguire la trattativa. Soddisfatto l’impegno, la delegazione italiana chiede la restituzione dei tre connazionali, ma viene gelata: «Non siamo sequestratori e, in ogni caso, non abbiamo noi i vostri ragazzi. Ma possiamo assicurarvi che torneranno vivi in Italia».
Il 23 aprile, nella loro cerimonia del venerdì, gli ulema pregano per la salute dei nostri ostaggi. In quei giorni, ad al-Dhari muore il fratello, i nostri vanno in visita di condoglianze e Mutan, il figlio del dignitario sunnita, mostra la nuova preghiera che sarà recitata il 30 aprile. A questo punto i servizi italiani riescono a stabilire un contatto indiretto con il gruppo dei rapitori. E capiscono che la contropartita per la liberazione è politica. Infatti, il 26 aprile, sull’emittente al-Arabiya compaiono i tre ostaggi in abiti arabi mentre mangiano: i rapitori sollecitano una grande manifestazione in Italia contro la nostra presenza italiana in Iraq, di cui la televisione deve dare notizia.
Il 29 aprile, in piazza San Pietro ha luogo la manifestazione, senza simboli ufficiali dei partiti d’opposizione (un messaggio su un sito arabo non richiede presenze politiche formali). C’è Angelo Stefio con il suo tricolore e c’è Moreno Pasquinelli, leader del Campo antimperialista. Pasquinelli afferma di aver ricevuto una telefonata da Jabbar al-Kubaisi in cui il leader della Resistenza patriottica irachena gli avrebbe detto che gli ostaggi sarebbero stati consegnati ai pacifisti italiani. La cosa, come è noto, non ebbe seguito. (La presenza in Iraq del capo di Emergency, Gino Strada, giunto il 5 maggio per contattare Jabbar – già uomo di Saddam e cugino degli al-Kubaisi moderati –, sarà fonte di forti tensioni con la Croce Rossa e non porterà ad alcun risultato.)
Alla fine di aprile, però, la situazione si fa improvvisamente critica. Una frase («Sì, è stato pagato un riscatto») pronunciata da Barbara Contini, governatore della provincia irachena di Dhi-Qar, durante la trasmissione di Maurizio Belpietro «L’antipatico», fa infuriare gli arabi che stanno trattando («A chi avete dato i soldi?» gridano ai nostri emissari, allibiti). Un micidiale bombardamento americano su Falluja complica ulteriormente la situazione. Le autorità irachene sono furibonde e i nostri cercano di mediare. Intanto a Baghdad, fiutando che la vicenda sta per avviarsi all’epilogo, buono o cattivo che sia, piombano autorità e giornalisti di ogni genere. Il 1° maggio un emissario italiano, in un incontro con i suoi interlocutori abituali, viene fatto sdraiare per terra e si trova le canne dei fucili puntate alla tempia.
A questo punto il nostro governo interviene bloccando l’azione dei servizi segreti. Al direttore del Sismi, Nicolò Pollari, che ha seguito la vicenda fin dall’inizio, arriva l’invito di dare spazio alle organizzazioni umanitarie, anzitutto alla Croce Rossa.
Maurizio Scelli, abruzzese di Sulmona e avvocato civilista a Roma, è commissario straordinario della Cri dal 30 ottobre 2002. Il 13 aprile, giorno dopo il sequestro degli italiani, si precipita a Baghdad per verificare se esistono le condizioni di sicurezza per tenere aperto l’ospedale. Settecento persone vi si sono alternate dal 9 maggio 2003 per assistere 70.000 pazienti (la metà bambini). Tra l’estate e l’autunno del 2003, due terribili attentati convinsero l’Onu e la Croce Rossa internazionale a ritirare le loro strutture. Da allora sono rimasti soltanto i medici, gli infermieri e le crocerossine italiane. Scelli prende subito contatto con Mutan al-Dhari, portavoce del Consiglio degli ulema, il quale gli chiede aiuto per la città assediata di Falluja: tre convogli della Cri carichi di acqua, viveri e medicinali vi giungono tra grandi difficoltà il 20, il 23 e il 26 aprile. Gli ulema chiedono che i pazienti più gravi vengano curati in Italia e il 13 maggio arrivano nel nostro paese 14 persone, tra cui 6 bambini. Il piccolo Alì, mutilato di un braccio e della gamba sinistra, diventerà il simbolo delle sofferenze irachene e della speranza che nazioni come la nostra possono offrirgli. (Al-Sadr ha scritto una solenne lettera di ringraziamento a Scelli per la sua azione umanitaria.)
«La sera del 20 maggio» mi racconta Scelli «sono insieme al mio amico Nawar, un anestesista che lavora in Italia, quando un arabo che avevamo contattato da giorni ci dice: “Lì fuori c’è il corpo dell’italiano ucciso”. Nell’obitorio dell’ex Saddam Hospital vidi una ventina di cadaveri abbandonati fuori dalle celle frigorifere. All’esterno, nel cortile di una moschea, accanto a un cespuglio e avvolti in un lenzuolo, c’erano dei resti umani. Erano di Quattrocchi? Temetti che mi prendessero in giro. Com’era possibile che in poco più di un mese fossero ridotti così? L’unica cosa che si vedeva bene era la marca di un paio di slip: Underground. Chiamai Graziella Quattrocchi, la sorella di Fabrizio, alla quale avevo promesso che avrei fatto l’impossibile per trovare il corpo del fratello ucciso. Le dissi dello slip. Graziella andò a casa della madre, mi confermò la marca e la taglia.»
Dopo accertamenti penosi e accurati, il 29 maggio, nella cattedrale di San Lorenzo a Genova si svolgono i funerali di Quattrocchi. Scelli ha chiesto che non fossero funerali di Stato per non creare equivoci sul lavoro (privato) che i quattro italiani avrebbero dovuto svolgere in Iraq. L’assenza alla cerimonia di esponenti della sinistra, che durante l’intero sequestro ha manifestato una marcata freddezza nei confronti dei «mercenari», suscita parecchie polemiche.
Il 2 giugno Scelli porta aiuti umanitari a Najaf, altra città pesantemente colpita dalla guerra. Incontra il vice di Moqtada al-Sadr, figlio di una vittima illustre di Saddam e capo della guerriglia locale. «Mi dice che gli ostaggi sono vivi» racconta Scelli «e che avrebbe fatto di tutto per consegnarceli.» Dal 2 al 6 giugno Abdel Salam al-Kubaisi, il rappresentante del Consiglio degli ulema sunniti che ha chiesto e ottenuto il ricovero in Italia dei feriti iracheni, avverte Scelli di tenersi pronto. In quegli stessi giorni, da Falluja, al-Kubaisi gli dice che il governo italiano deve convincere quello americano a rilasciare alcuni prigionieri detenuti ad Abu Ghraib. Il commissario della Cri riferisce a Gianni Letta, che inizia a muoversi con gli Usa.
Domenica 6 giugno al-Kubaisi contatta Scelli: «“Preparate un convoglio umanitario della Croce Rossa e questo pomeriggio aspettate una chiamata. Troverete un furgone coreano (marca Kia), aprite il portellone, riconoscete gli ostaggi e mettetevi alla guida senza voltarvi.” Da quel momento non abbiamo saputo più nulla».
«Ci aiutò un uomo con la maglietta della Roma»
Venerdì 4 giugno una fonte aveva avvertito i nostri servizi segreti di aver visto vivi Stefio e i suoi compagni. Si effettuano alcuni riscontri: uno dei luoghi indicati come possibile prigione si rivelerà in effetti quello giusto. Ma gli emissari del nostro governo vogliono qualcosa in più. Scrivono allora alcune frasi su un foglietto, il quale viene mostrato da Salvatore Stefio in un video che, come abbiamo detto, al-Jazeera non manda in onda, avendo intuito che contiene un segnale convenzionale.
Lunedì 7 giugno c’è un colpo di scena: i militari americani fanno sapere di aver individuato il rifugio. I nostri servizi li pregano di non compiere subito un’azione di forza. L’ambasciatore De Martino chiede agli americani un giudizio sulla fonte. È una fonte singola e il giudizio sulla sua attendibilità è mediocre. La località indicata può essere plausibile, ma i nostri temono che un passo sbagliato possa provocare una carneficina.
Pollari chiede al governo di sospendere l’operazione e di concedergli qualche ora per ulteriori verifiche. Durante la notte vengono avvicinate altre fonti: una ha visto gli ostaggi durante un trasferimento, un’altra offre una prova documentale inoppugnabile che sono vivi e che, con loro, c’è un quarto uomo. Si tratta di Jerzy Kos, ingegnere polacco e dirigente della società edile Jedynka, inviato in Iraq per aprire alcuni cantieri. È stato rapito una settimana prima del blitz. («Una persona semplice» mi racconta Stefio «spesso preda di momenti di sconforto totale.») Si scopre, inoltre, che durante la notte i sequestrati non vengono sorvegliati da più di cinque o sei persone. Infine si ha la conferma più importante: uno dei sequestratori sta collaborando con gli americani. Ha messo in azione sul tetto dell’edificio un segnalatore di posizione che consente di localizzare con esattezza la prigione dei quattro. «Era un uomo sui trent’anni» mi racconta Agliana. «Indossava abiti occidentali e una maglietta della Roma. Sembrava una persona colta, si esprimeva in un inglese corretto e parlava soltanto con Stefio. Aveva letto parecchi romanzi e libri sull’Italia. Parlava di Firenze e della Toscana. Gli piacevano molto le donne. Io gli dicevo: se torniamo a casa, te ne faccio conoscere tante. Era triste per le condizioni del suo paese e non voleva viverci: non ci sono sbocchi, diceva, non c’è vita.»
I servizi italiani hanno ormai la ragionevole certezza che un’azione di commando non porterà a un bagno di sangue. I nostri arrivano a queste conclusioni per loro conto e gli americani sono irritati dal dover concordare ogni dettaglio. Alle 10 del mattino Pollari chiede a Berlusconi e a Letta il via libera, che gli viene concesso. Due elicotteri americani Black Hawk 2Mk60, con altrettante squadre di 9 persone ciascuna appartenenti ai reparti speciali, piombano sull’edificio, una scuola.
«Noi sapevamo che era l’8 giugno» mi racconta Agliana «e sapevamo che l’8 giugno era molto vicino all’11, data simbolica del terrorismo islamico. L’uomo favorevole alla nostra liberazione ci aveva detto che non c’era più tempo. Se non fossimo stati liberati subito, saremmo stati uccisi. Fu così che in quella che sembrava una mattinata come le altre sentimmo il rumore improvviso degli elicotteri che scendevano in verticale. Mentre i vetri delle finestre andavano in frantumi, entrarono i militari gridando: “Siamo americani!”. Ci tagliarono le catene con le tronchesi. Un minuto dopo eravamo sugli elicotteri. Era finita.»
Gli americani hanno arrestato quattro persone e, più tardi, una quinta. (Franco Ionta, capo del Pool antiterrorismo della Procura di Roma, ne conosce due.) Gli interrogatori effettuati da esponenti delle forze armate americane in ambiente militare non hanno alcun valore processuale, ma sono pedine di un gioco di domino ancora molto lungo.
Enzo Baldoni, 140 ore per morire
«La storia di Enzo Baldoni è complicata» mi dice un investigatore, convinto che ad ammazzare l’italiano sia stato il gruppo di al-Zawahiri, il più spietato del terrorismo iracheno. «Guardando il filmato con cui fu annunciato il suo sequestro, pensammo anche noi a un montaggio. Ma gli esperti ci spiegarono che c’era stato un unico punto di ripresa: i diversi elementi in campo “ballavano” in sincrono.» Pensarono tutti a un montaggio: delle decine di ostaggi mostrati dai terroristi iracheni, infatti, Baldoni era l’unico a sorridere. Perché? Perché lui era diverso dagli altri rapiti. Da pubblicitario di successo, conosceva bene il significato dei messaggi televisivi, e quindi fece uno spot per tranquillizzare i suoi cari: il padre, la moglie, i due bellissimi figli. Era convinto che non l’avrebbero ammazzato. Baldoni amava i viaggi estremi, le esperienze forti: lui stesso confessò di essere andato due volte vicino alla morte. Ma soltanto la furia cieca e selvaggia di questi assassini poteva ammazzare un pacifista con l’hobby del giornalismo, che era giunto in Iraq per scrivere articoli antiamericani, documentare gli orrori della guerra e – perché no? –, come suppone Maurizio Scelli, verificare se tutto quanto faceva la Croce Rossa italiana da quelle parti fosse corretto. Bastava leggere i suoi reportage per «Diario» e il suo sito blog. E invece l’hanno ammazzato, a 140 ore dal sequestro. «Troppo poche per fare qualcosa» mi dice uno degli uomini che ha cercato di salvarlo.
Baldoni ha un vecchio rapporto d’amicizia con Giuseppe De Santis, funzionario della Cri milanese e capomissione della Croce Rossa in Iraq. Si sono conosciuti vent’anni fa a Milano nel mondo del volontariato del pronto soccorso e si ritrovano a Baghdad. Baldoni usa la Croce Rossa come testa di ponte per andare nelle zone a rischio, si fida (purtroppo) di uno strano personaggio di nome Ghareeb, che gli fa da autista e, forse, gli ha promesso un’intervista esclusiva con Moqtada al-Sadr, l’uomo che ogni giornalista vorrebbe incontrare.
Il giorno di Ferragosto De Santis e Baldoni vogliono partire per Najaf. Scelli a Roma ne viene informato e li blocca: «È troppo rischioso andare senza protezione». «Come faccio a giustificarmi?» chiede De Santis. «Di’ che si è rotto il camion» gli suggerisce il commissario straordinario. «Se a Najaf hanno urgenza dei nostri aiuti, vengano a prenderseli: daremo viveri, acqua, medicinali.» Baldoni s’arrabbia e parte da solo, con i soccorsi della Croce Rossa e l’assistenza della Mezzaluna irachena. «Torna la sera» mi racconta Scelli «e manda il suo pezzo a “Diario” dicendo che io volevo bloccare tutto, da quel burocrate con ansia mediatica che sono. Da allora c’è il mio veto per qualunque missione pericolosa fuori da Baghdad. Senza informarmi di nulla, Baldoni e De Santis decidono ugualmente di partire il 19 agosto per Najaf.» Si aggregano l’inviato del Tg1 Pino Scaccia e il suo operatore Norberto Sanna. A 40 chilometri da Baghdad – Najaf ne dista 180 – un mezzo del convoglio salta su una mina. Viene gravemente danneggiata la cabina di un camion e vanno in frantumi i vetri dell’ambulanza.
«L’attacco» mi racconta Scaccia «avviene a Mahmudia, il micidiale crocevia dei sequestri, dove fra gli altri sarebbero stati catturati i due giornalisti francesi e il console iraniano. Ghareeb, De Santis e Baldoni decidono di proseguire. Ci parlano di una lettera per il papa che al-Sadr dovrebbe consegnare alla Croce Rossa. Arriviamo a Najaf e veniamo bloccati dagli americani. Baldoni scende dall’auto, mostra una bandiera della Cri, noi lo filmiamo, ma i soldati Usa non si inteneriscono e non ci fanno avanzare. Su consiglio di Ghareeb, De Santis suggerisce di rifugiarci nella moschea di Kufa, a una decina di chilometri di distanza. È un posto sicuro, ci dicono. In realtà, è il quartier generale delle milizie di al-Sadr, tant’è vero che l’indomani gli americani lo bombardano uccidendo 40 persone. Consegniamo viveri e medicinali e chiamiamo Scelli a Roma: non sa niente della missione e s’infuria. Ci dice di rientrare. De Santis risponde che non è possibile per ragioni di sicurezza. Io e Sanna, invece, rientriamo per montare il servizio, accompagnati dallo sceicco Mohammed, referente di al-Sadr. Il nostro autista fa una deviazione di parecchi chilometri all’altezza di Mahmudia. L’indomani scopriamo che ha evitato il posto dove sarebbe stato sequestrato Baldoni.»
L’autostrada che collega Baghdad a Najaf ha quattro corsie. L’auto di Baldoni e Ghareeb salta su una mina, si gira su se stessa, invade la corsia opposta e si ferma. In questi casi, il protocollo d’emergenza prevede che, se un mezzo viene attaccato, gli altri debbano proseguire. E così avviene. Un testimone a bordo dell’ultimo veicolo del piccolo convoglio vede aprirsi la portiera di destra dell’auto colpita e Baldoni scendere. Da quel momento, del giornalista si perdono le tracce. Si saprà soltanto che Ghareeb, lo spregiudicato autista-interprete-faccendiere palestinese, viene ucciso immediatamente dai sequestratori. L’indomani, due emissari di Scelli ne fotografano il cadavere con la testa crivellata di colpi: un’esecuzione. Si tratta di uno dei tanti punti oscuri della vicenda: Ghareeb faceva il doppio gioco anche in politica, era sospettato di avere rapporti anche con gli israeliani.
Appena rientrato a Baghdad, De Santis si precipita negli uffici di al-Sadr per perorare la causa di Baldoni. Soltanto dopo avverte della sua scomparsa l’ambasciata italiana e la Croce Rossa. «Il giornalista» mi racconta Scelli «è stato sequestrato al confine tra zone controllate dai sunniti e dagli sciiti. Così prendiamo contatti con tutti. Anche con Abu Karrar, un militare che lavorava per Saddam. Arriva il consueto ultimatum, ma noi contiamo sul fatto che l’attività pacifista di Baldoni giochi in suo favore. La notizia della sua morte, il 27 agosto, giunge come una doccia gelata.» Si saprà che, nei sei giorni di prigionia, Baldoni è stato trasferito in diversi luoghi. Tra i due «partiti» che si sono occupati di lui, quello della criminalità comune e quello di al-Zawahiri, purtroppo ha vinto il secondo. I giornali di sinistra se la prendono con Scelli (quanto fastidio può dare quest’uomo moderato che porta la Croce Rossa là da dove gli altri scappano salvando tante vite?). Suoi incontri successivi con il direttore di «Diario», Enrico Deaglio, e con la moglie di Baldoni avrebbero chiarito la situazione.
Quando Gianni Letta piombò con un registratore
A guardarle sulle pagine patinate di un rotocalco («Gente», 28 ottobre 2004) nelle fotografie «rubate» da Massimo Sestini mentre sono in vacanza nell’isola di Salina, Simona Torretta e Simona Pari sembrano due ragazze qualsiasi. Non lo erano un mese prima. Quando, al mattino presto del 28 settembre, Fausto Bertinotti si vide piombare in casa Gianni Letta con un piccolo registratore in mano, pensò a un miracolo. «Oggi è sabato 25 settembre» diceva una voce femminile in inglese. «Le notizie sulla nostra morte sono false, noi stiamo tutte e due bene, vi prego di rispettare i vostri impegni. Non giocate con la nostra vita, perché è in pericolo.» A parlare era Simona Torretta: voce ferma, inglese perfetto. Poi è la volta della Pari: legge la stessa frase, è più emozionata, la pronuncia appena più incerta.
La stessa visita, nelle stesse ore, Letta la fece a Piero Fassino e a Francesco Rutelli. Informò tutti dell’esito delle trattative e della probabile, imminente liberazione. Un riscatto? È stato smentito. Bertinotti e gli altri leader del centrosinistra restarono molto impressionati sia dalla notizia sia dal modo di operare che il governo aveva adottato fin dall’inizio della vicenda, cominciata 21 giorni prima, il 7 settembre. Quel giorno, su suggerimento del suo sottosegretario, Berlusconi aveva invitato per l’indomani a palazzo Chigi tutti i rappresentanti dell’opposizione. Aveva parlato del sequestro, assicurato che il governo avrebbe fatto l’impossibile per salvare le due ragazze, chiesto (e ottenuto) comprensione e riservatezza assoluta sulle trattative. Era lo stesso metodo usato dal governo francese dopo il sequestro di due giornalisti, ma con una significativa differenza: Parigi si era appoggiata anche ai terroristi palestinesi di Hamas, in ossequio al principio che tagliare la gola agli amici della causa araba non sta bene, per gli altri pazienza. Le due ragazze italiane, però, al contrario degli sfortunati giornalisti francesi, dopo tre settimane sarebbero tornate a casa.
Le due Simone furono rapite alle 17.13 (le 15.13 italiane) di martedì 7 settembre nel loro ufficio di Baghdad, la sede irachena di «Un ponte per…», un’organizzazione umanitaria che agisce in diversi paesi e ha una connotazione marcatamente antiamericana. Attiva nella capitale irachena quando Saddam Hussein era ancora al potere, aveva denunciato il lungo embargo sancito dal governo Clinton e poi dal governo Bush contro l’Iraq. Simona Torretta, 29 anni, era capomissione. Nel 2003, subito dopo lo scoppio della guerra, aveva scritto per «La Stampa» un diario che il giornale aveva titolato Tutta colpa degli americani. Ora si occupava della ricostruzione della biblioteca della città. Simona Pari, 29 anni, già capo ufficio stampa del sottosegretario alla Difesa Marco Minniti (Ds), aveva lavorato in Afghanistan e nei Balcani, e si occupava dell’istruzione dei bambini. Nelle settimane successive alla loro liberazione, una fonte autorevole mi ha detto che le due ragazze, prima di essere rapite, avevano intenzione di trasferirsi a Falluja: se è vero, qual era la ragione? Un semplice cambio di teatro operativo o il timore di essere in pericolo a Baghdad?
Nel loro ufficio fece irruzione un gruppo armato con divise di foggia militare, ma comandato da un uomo in abiti borghesi occidentali: giacca e camicia senza cravatta. Sulle tre auto dei sequestratori furono caricati in quattro: oltre alle due Simone, un ingegnere e una donna irachena che lavoravano con loro. Un altro italiano, il cui nome era nella lista dei rapitori, si era allontanato da un paio di giorni dalla città.
La primissima fase del sequestro fu molto dura. Le ragazze erano accusate di essere spie e di fare proselitismo religioso in favore del cristianesimo. (È stato poi accertato che non furono rapite per errore: l’identità era giusta, il ruolo attribuito all’organizzazione per la quale lavoravano nettamente sbagliato.) Quando si accorsero che le due italiane avevano un atteggiamento tutt’altro che ostile alla loro causa, i sequestratori cambiarono atteggiamento e tolsero loro le bende dagli occhi. I lunghi interrogatori dei primissimi giorni diventarono normali colloqui e alle Simone furono dati libri in inglese sul Corano e la storia dell’Islam. Quanto ai dettagli sulla loro alimentazione pubblicati da un autorevole giornale del Kuwait, sono sbagliati: le ragazze sono state sempre ben nutrite, ma è impensabile che potessero chiedere – come è stato scritto – cereali e yogurt.
Niente Croce Rossa. Ma una telefonata…
Questa volta il governo italiano decise di fare a meno della Croce Rossa e dei canali umanitari, e di utilizzare unicamente i propri servizi diplomatici e d’informazione. Ma il caso vuole che la mattina del 10 settembre, tre giorni dopo il sequestro, una telefonata segni il destino delle due ragazze e coinvolga Maurizio Scelli nella vicenda. Mohammed al-Kubaisi, segretario generale del Consiglio degli ulema e preside della facoltà di diritto islamico all’università di Baghdad, chiama in Italia il giovane Nawar per chiedergli se esiste la possibilità di farsi curare nell’ospedale italiano dove lui lavora. Nawar è un giovane medico iracheno che sta seguendo un corso di specializzazione in anestesia e rianimazione all’Università Cattolica di Roma, presso il policlinico Agostino Gemelli. Collabora con Scelli dal 9 maggio 2003, quando la Croce Rossa italiana arrivò a Baghdad con il primo ospedale da campo, diventato poi il più efficiente centro di assistenza sanitaria della popolazione. Nawar è figlio di un illustre docente della facoltà di ingegneria della capitale, stimatissimo da Harith al-Dhari, il già citato presidente del Consiglio degli ulema.
Quando, il 10 settembre, Nawar avverte al-Kubaisi che il Gemelli ha dato la sua disponibilità, si sente dire: «Come mai stavolta non ci chiedete aiuto per gli ostaggi?». «Dopo la storia di Baldoni» risponde Nawar «Scelli è bruciato. Nessuno si è rivolto a lui, anzi la Croce Rossa è stata invitata a tenersi fuori da questa storia.» «Peccato» osserva l’altro. «Mi sarebbe piaciuto collaborare con voi.» Alla telefonata assiste Scelli. Ascolta le parole di al-Kubaisi e, quando Nawar gli fa un gesto per chiedere istruzioni, muove le mani per dire: va’ avanti. Allora il medico iracheno dice all’illustre interlocutore: «Se lei ha punti di riferimento precisi o notizie concrete, potrebbe mettere di nuovo la Croce Rossa in condizioni di occuparsi del sequestro.» «Mi farò vivo entro 48 ore» replica l’altro.
A questo punto Scelli chiama Letta, il quale è gentile come sempre, ma si mostra freddo su quel canale di trattativa: «Sai come stanno le cose, la questione ha ormai una valenza politica, abbiamo promesso a tutti i leader dell’opposizione che avremmo evitato intermediari. L’unica possibilità che se ne occupi la Croce Rossa passa per lo “sdoganamento” da parte di “Un ponte per…”. Provaci, se vuoi». Scelli chiama Fabio Alberti, il capo dell’organizzazione per cui lavorano le due ragazze, e si trova davanti un muro: «Grazie per l’interessamento, ma state fuori da questa storia. Abbiamo i nostri contatti, la vostra iniziativa può pregiudicare la trattativa».
Il 12 settembre, puntualmente, sul cellulare di Nawar arriva una telefonata. È uno sconosciuto. «So che vi interessano le ragazze italiane» dice. «Possiamo parlarne. Sapete le condizioni: il ritiro delle truppe italiane e il rilascio di donne musulmane detenute in varie carceri irachene.» Nawar ormai conosce le regole del gioco: «Noi siamo pronti a occuparcene, ma quello che lei mi sta dicendo lo raccontano i giornali e la televisione: mi dia, intanto, una prova che le ragazze sono vive». «Non ho un rapporto diretto con chi le ha sequestrate» ribatte lo sconosciuto «ma cercherò di farle sapere qualche cosa di più preciso.» Scelli chiama di nuovo Letta, che non se la sente di chiudere la porta: «Tieni aperto il canale» dice al commissario «e fammi sapere.»
Il 14 settembre lo sconosciuto chiama di nuovo Nawar: «Ho qualcosa da farle ascoltare». Parte una registrazione e il medico sente la voce delle due ragazze. Una piange. Il messaggio è in inglese: «Vi preghiamo di aiutarci. Fate quel che dicono i nostri rapitori, altrimenti entro 48 ore ci uccideranno». Nawar prega l’interlocutore di trasmettere di nuovo il messaggio, lo registra e si precipita da Scelli. I due vanno a palazzo Chigi e fanno ascoltare a Letta il disperato appello delle due ragazze. A questo punto il sottosegretario non può escludere la Croce Rossa dalla trattativa: «Va’ avanti nella riservatezza più assoluta, visto che dovevi star fuori dalla storia» dice a Scelli. «Tienimi aggiornato.» Sono le ore in cui Berlusconi dichiara che il governo si sta attivando per verificare che nelle carceri irachene non ci sia nessuna persona detenuta abusivamente (si scoprirà che sono incarcerate soltanto due spietate collaboratrici di Saddam Hussein).
La sera del 15 settembre, nuova telefonata dello sconosciuto, che chiarisce finalmente il suo ruolo di vero intermediario: «Che volete fare?» chiede a Nawar. Il medico gli risponde: «La Croce Rossa non è il governo italiano, e voi sapete che il governo non intende trattare sul ritiro delle truppe, né può imporre al governo iracheno di rilasciare chicchessia». «Allora pagate» ribatte l’altro. «Anche su questo» risponde Nawar «il governo non tratta, e noi non possiamo spendere per un riscatto le centinaia di migliaia di dollari al mese che spendiamo per curare la vostra gente. Se avete bisogno di altre cure, siamo a disposizione.» «Può essere una buona strada» conclude l’intermediario. «Sento e vi richiamo.»
«Gianni, è arrivata la prova»
Lo sconosciuto richiama il 18 settembre: «Abbiamo bisogno di medicine e di far curare due persone che rischiano di morire». («A Baghdad si trova tutto, basta pagare» mi racconta una persona che, durante il sequestro dei quattro italiani, ha comprato in un batter d’occhio 46.000 aspirine pediatriche.) Le due persone non sono pazienti qualunque, ma probabilmente guerriglieri feriti. Se vengono identificati, rischiano ovviamente l’arresto. Allora Nawar detta all’intermediario un codice segreto che servirà da lasciapassare al check-point della polizia irachena che presidia Medical City, l’ospedale della Croce Rossa, e nel contempo compila un lungo elenco di medicinali. I due feriti non vengono fermati e si trattengono in ospedale per le cure necessarie. I loro accompagnatori fanno il pieno di farmaci per la terapia di ustioni e diabete, poi escono da una porta secondaria. Capiscono di poter contare sul sostegno e sulla riservatezza della Croce Rossa. Lo stesso giorno, Nawar può registrare un nuovo messaggio delle due ragazze: «Le medicine sono arrivate. Grazie. Mi raccomando, continuate ad assumervi impegni. Non giocate con la nostra vita».
Scelli torna a palazzo Chigi e Letta prende atto che il canale è quello giusto. La sera di mercoledì 22 settembre, verso mezzanotte, arriva la notizia che le due italiane sono state uccise. Scelli, disperato, chiama Nawar. Il medico, incredulo, telefona ad al-Kubaisi. «Come sapete» risponde quest’ultimo «io non ho rapporti con i sequestratori. Ma la persona alla quale mi sono rivolto è meritevole di altissimo rispetto e ha giurato sul proprio onore che le ragazze non sarebbero state uccise. Domani, comunque, vi faccio sapere.»
Il giorno dopo, a mezzogiorno, si fa vivo l’anonimo intermediario. Ha voglia di scherzare. «Voi guardate troppo la televisione» dice a Nawar. «La notizia della morte delle due Simone è falsa.» Nawar ha uno scatto di nervi: «Voglio la prova. Scelli si è molto esposto, rischia di essere massacrato. Se questa cosa finisce male, chiudiamo l’ospedale». «Va bene, va bene» fa l’altro. «Avrete la prova che sono vive.»
Intanto a palazzo Chigi Letta freme: «Allora?». «Io sono tranquillo» mente Scelli. «Comunque, aspettiamo.» E sabato sera arriva la telefonata che abbiamo citato all’inizio del racconto. Scelli chiama subito Letta: «Gianni, la prova è arrivata». «Com’è?» «Fantastica.»
Un’altra telefonata arriva la sera di domenica 26 settembre. «Siamo pronti a consegnarvi le ragazze» comunica l’intermediario. «Voi dovrete dire che ve le diamo per ragioni umanitarie e non politiche, altrimenti facciamo la figura di quelli che hanno mollato. Qui abbiamo grossi problemi con gli americani e dovete arrivare al più presto. Appena vi chiameremo, il vostro aereo dovrà decollare.»
Viene messo in preallarme un aereo di Air One noleggiato dalla Croce Rossa. Alle 2 del mattino di martedì 28 settembre Nawar sveglia Scelli: «Dobbiamo andare». Viene avvertito il pilota, che sta dormendo a Ciampino. Un’esercitazione militare in corso all’aeroporto di Baghdad non consente l’atterraggio prima delle 11.45. Dice Nawar: «Ci aspettano all’uscita del check-point dell’aeroporto di Baghdad. Ci sarà un’auto bianca e due persone con in mano scatole di medicinali».
«Attento, Scelli: è una trappola!»
Al punto prestabilito ci sono sia l’auto bianca sia i due uomini con le scatole in mano, ma non le ragazze. «La situazione all’aeroporto militare non ci piaceva» dicono a Scelli. «Vi consegneremo le due Simone in un altro posto.» Il commissario informa Letta. «Attento, è una trappola» gli grida il sottosegretario. «Non muoverti.» Scelli fa cadere la linea, disobbedisce a Letta e accetta di seguire i due uomini. Saliti sull’auto bianca, il commissario e Nawar vengono invitati a piegarsi su se stessi per non vedere la direzione di marcia e non essere notati.
Dopo un’ora arrivano a un villino. Li riceve un uomo con barba e occhiali («alla Antonello Venditti» racconterà Scelli). L’uomo fa un inchino, prega gli ospiti di consegnare orologi e cellulari (non vuole segnalazioni) e comincia a discutere. Il suo discorso, in buona sostanza, è: cari italiani, noi vi ammiriamo tanto, anzi vi vogliamo bene, siamo grati per tutto quello che la vostra Croce Rossa sta facendo per noi, ma come vi è saltato in mente di andarvi a mettere con gli americani in questa sporca guerra? Scelli e Nawar rispondono alla bell’e meglio. Intanto passano le ore e il commissario della Croce Rossa comincia a paventare un’imboscata. Tiene d’occhio la porta e, ogni volta che si apre, teme che si affacci qualcuno con la telecamera in mano e dica agli ospiti: «Tirate fuori i passaporti. Siete sequestrati anche voi».
L’uomo con la barba continua a parlare, telefona alternando quattro o cinque cellulari, poi dice a Scelli: «Tranquilli, ci stanno portando le ragazze. Ma da un paio d’ore sono ripresi i bombardamenti americani e occorre un po’ di pazienza». Quella di Scelli sta esaurendosi, l’uomo capisce, forma un numero, fa cadere la linea, viene richiamato, passa il cellulare a Nawar. «È la ragazza» gli dice il medico. Il commissario afferra il telefono e sente: «Sono Simona Torretta». «Sono Maurizio Scelli, sta’ tranquilla.» «Ripeti in inglese, per favore.» Scelli ripete. L’uomo con la barba sorride, dice che la Torretta è stata portata per la prima volta fuori della prigione per telefonare.
La porta della stanza in cui Scelli e Nawar attendono ormai da ore si apre di nuovo ed entra una persona con in mano un grande vassoio: riso, pollo, kebab. A Scelli si blocca lo stomaco: rivede la scena in cui Agliana, Cupertino e Stefio mangiano le stesse cose e continua a temere che qualcuno accenda una telecamera e chieda loro i passaporti. L’uomo con la barba, invece, dice al commissario: «Vorrei avere il piacere di donarti una pistola». Una pistola? «Accetto il dono» risponde Scelli «anche se, per principio, il personale della Croce Rossa non gira armato.» La pistola è una calibro 9 corto non bifilare di fabbricazione irachena, molto simile alla nostra Beretta. «Se non ci fosse stato il vostro intervento umanitario» spiega l’uomo al commissario «questa pistola sarebbe stata usata per uccidere le due ragazze.» Poi detta due righe a Nawar: «Per onorare Maurizio Scelli e quello che avete fatto, vi doniamo questa pistola in segno della nostra amicizia». Infine annuncia che la consegna delle due Simone avverrà sotto l’occhio di una telecamera di al-Jazeera per documentare i termini e le condizioni del rilascio. All’ipotesi di trascorrere la notte nel villino, Scelli si ribella. «Abbiamo l’aereo con i motori accesi» dice. «Se passa qualche ora, arrivano gli americani e può accadere qualsiasi cosa.» L’uomo con la barba si convince, fa un’ultima telefonata, quindi fa bendare gli ospiti e li accompagna a un’automobile.
E Letta gridò: «Sono libere!»
Durante il tragitto, Scelli si scosta appena la benda dagli occhi e vede che l’uomo passa a Nawar un pacco di dinari. «Vi serviranno per il taxi» gli dice. Quando ai due vengono tolte le bende, Scelli scopre di trovarsi davanti alla moschea sede del Consiglio degli ulema. Costeggia le mura dell’edificio e si trova dinanzi a due donne e un uomo (è l’ingegnere rapito). Accanto a loro, un giovane sta filmando la scena con una piccola telecamera digitale con lo sportellino per controllare le inquadrature. Un taxi si sta allontanando: a bordo c’è l’irachena rapita con le due ragazze italiane. Le donne si tolgono il velo, la prima si volta e incoraggia la compagna. Sono le due Simone. Vedono Scelli, e la Pari gli dice: «Ma allora è vero che liberi gli ostaggi…». («Molti mi hanno chiesto» mi racconta il commissario «perché non sono corso ad abbracciarle. Davanti ai musulmani non sta bene toccare una donna.») Scelli e Nawar sono invitati a dire parole di ringraziamento e di rispetto per il mondo islamico, e al primo viene consegnata la pistola. Tutto questo avviene davanti alla telecamera, ma né i ringraziamenti né la consegna dell’arma (poi passata da Scelli alla magistratura) vengono trasmessi da al-Jazeera. Infine, Scelli chiama Letta e gli passa le ragazze al cellulare. Letta telefona ai genitori delle Simone gridando: «Sono libere!».
In volo le ragazze raccontano di essere state trattate bene, a parte subito dopo il sequestro, quando gli interrogatori furono molto bruschi. Un giorno la Torretta si era sentita male (i medicinali italiani servivano anche per lei) e i rapitori l’avevano rassicurata dicendole che, se il malore fosse peggiorato, l’avrebbero accompagnata in ospedale. Cominciarono a sperare quando i rapitori chiesero loro di registrare il messaggio.
«Ho seguito con attenzione spasmodica tutte le possibili trattative nelle diverse direzioni. E mi sono assunto la responsabilità della decisione finale» mi dice Berlusconi. Le «diverse direzioni» alla fine si erano ridotte a tre. Gli americani avevano individuato la prigione delle ragazze, ma il blitz venne scartato perché troppo pericoloso, visto l’alto numero di sorveglianti. Restavano altre due strade: una percorsa dai servizi segreti, l’altra dalla Croce Rossa. Per le ragioni che abbiamo visto, è stata preferita quest’ultima.
«A Ciampino, sull’aereo che le ha riportate a casa» continua il Cavaliere «le due ragazze mi hanno abbracciato entrambe con grande slancio. È stato un momento molto commovente. Con me le due Simone si sono comportate correttamente: sono consapevoli di doverci la vita. Poi, rientrando in un certo ambiente, sono scivolate in qualche dichiarazione di cui non mi sento di far loro carico.»
L’indomani, infatti, le due ragazze ebbero parole molto carine nei confronti dei rapitori e dell’Islam, abboccarono all’esca di una giornalista chiedendo il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq e dimenticarono di ringraziare il governo e la Croce Rossa. Ripararono più tardi, ma Berlusconi – che anche a chi scrive ha negato di aver pagato un riscatto – non se l’è presa.
Da Nassiriya a Beirut, il network delle stragi
«Ci sono diversi morti, presidente.» La mattina di mercoledì 12 novembre 2003 fu il prefetto Emilio Del Mese, direttore del comitato esecutivo per i servizi di informazione e di sicurezza (Cesis), a comunicare a Berlusconi che a Nassiriya c’era stato un attacco pesantissimo contro il contingente italiano. I morti, dissero all’inizio i telegiornali, sembravano 6 o 7, ma purtroppo l’esperienza insegna che le prime notizie sono sempre molto parziali. Alla fine le vittime italiane furono 19: 13 carabinieri, 4 soldati, 1 documentarista civile e 1 funzionario dell’Ocse. Morirono anche molti iracheni. Un’autocisterna imbottita di esplosivo e scortata da un’altra auto era scoppiata dopo uno scontro a fuoco con il corpo di guardia. Probabilmente la protezione del contingente non era perfetta (oggi la sua sede è di fatto irraggiungibile da un’automobile sospetta). Le sentinelle furono comunque in grado di anticipare l’esplosione dell’auto dei kamikaze, arginando il disastro.
Per l’Italia, la strage di Nassiriya fu un colpo durissimo, al quale – dinanzi alle bare schierate all’Altare della Patria – il paese rispose unito. Le indagini successive hanno tuttavia permesso di accertare che per i capi del terrorismo islamico quello di Nassiriya fu un mezzo insuccesso, tanto che avrebbero cercato di prendersi la rivincita un anno dopo facendo saltare in aria l’ambasciata italiana a Beirut. Quest’ultimo, terrificante attentato è stato sventato nella tarda estate del 2004 dal Sismi con un’operazione magistrale, i cui dettagli sarebbero stati resi noti solo in ottobre. I nostri servizi sapevano che una funzionaria dell’ambasciata tedesca a Beirut era un obiettivo dei terroristi islamici perché aveva fatto arrestare i parenti di uno dei loro capi. La signora era sotto la protezione del proprio governo e il piano dei terroristi sembrava perfetto: dopo aver ucciso gli uomini di scorta e sequestrato la funzionaria, le avrebbero mozzato la testa chiedendo come riscatto la liberazione di alcuni prigionieri politici. Nello stesso periodo gli uomini del Sismi vennero a conoscenza di altri due obiettivi: i terroristi volevano eliminare alcuni diplomatici ucraini e far saltare l’ambasciata italiana a Beirut. Quest’ultimo ordine sarebbe stato impartito da Osama bin Laden in persona.
Le segnalazioni di un terrorista «pentito» consentono ai servizi segreti italiani di filmare, poco prima di Ferragosto, un sopralluogo degli attentatori alla nostra sede diplomatica che occupa il terzo piano di un palazzo nel cuore di Beirut (piazza dell’Etoile) di proprietà delle Assicurazioni Generali, in cui hanno sede la filiale libanese di Banca Intesa e un’altra società italiana di import-export. Le indagini successive consentono di accertare che a capo dell’operazione c’è Ahmad Salim Miqati, il più famoso terrorista libanese latitante, con un grande ascendente sull’opinione pubblica radicale, condannato a 200 anni di carcere per una serie di attentati tra cui quello al McDonald’s di Beirut. Nessuna polizia e nessun servizio segreto del mondo possiedono una sua fotografia. I nostri servizi dotano di una telecamera nascosta un «pentito» che va in casa di Miqati e lo filma: l’uomo ha una fluente barba salafita. Ma è davvero lui il super-ricercato? Il Sismi trova una sua vecchia foto applicata a un documento falso, ma il confronto non è convincente.
Quando si ha la conferma che è Miqati a dirigere personalmente il secondo sopralluogo, chi lo filma si trova di fronte una persona completamente diversa dal signore con barba salafita ripreso in precedenza. Questo è un uomo sportivo, con occhiali da sole alla moda. Un raffronto accurato tra le immagini, tuttavia, autorizza il sospetto che possa trattarsi della stessa persona. Miqati critica il sopralluogo precedente durante il quale erano stati considerati sufficienti 80 chili di esplosivo e dice che ne occorrono ben 300 per polverizzare completamente il palazzo in cui ha sede la nostra ambasciata.
A questo punto gli obiettivi a rischio sono troppi. I nostri servizi temono di non poterli controllare tutti e informano le autorità libanesi. Qualche giorno dopo Miqati, che viene pedinato, arriva in un giardino pubblico: porta gli occhiali da sole e un cappellino sui capelli unti. Tutt’intorno, ragazze che apparentemente fanno jogging, una finta coppia di fidanzati e altri uomini dei servizi travestiti. Il problema è come agganciarlo. Un funzionario italiano in tuta da ginnastica pensa che, se un superlatitante si sente chiamare per nome, ha certamente un momento di smarrimento. Si avvicina al terrorista e gli dice, in italiano: «Miqati, tranquillo…». L’uomo fa un salto indietro e, un istante dopo, gli sono tutti addosso. È il 17 settembre 2004. (Con Miqati vengono arrestate altre persone, tra le quali Ismail al-Khatib, accusato di essere uno dei reclutatori dei terroristi kamikaze di Nassiriya, che muore il 27 settembre in carcere. Motivazione ufficiale: infarto. Motivazione ufficiosa tra i cronisti: pestaggio della polizia.) L’Italia si risparmia una strage dieci volte più pesante di quella di Nassiriya mentre si avvicina a individuarne i responsabili.
Vittime italiane, serie A e serie B
Dopo che un attentato terroristico ha ucciso 34 turisti nell’hotel Hilton di Taba, sul mar Rosso – al confine egiziano con Israele –, «il Giornale» dell’11 ottobre 2004 ha annotato che sono 26 gli italiani ammazzati in meno di due anni da al-Qaeda, o comunque da assassini che si riconoscono nell’ala radicale dell’Islam. A Taba muoiono due sorelle piemontesi di Dronero, Jessica e Sabrina Rinaudo, una commessa, l’altra parrucchiera, che avevano raggranellato qualche centinaio di euro per andare in vacanza nella mitica Sharm el Sheik. (Poiché lì non c’era posto, avevano ripiegato su Taba.)
Le due sorelle sono le ultime vittime di un lungo elenco che si apre con Luciano Tadiotto, ucciso negli attentati di Casablanca (Marocco) il 16 maggio 2003, e continua con i 19 morti di Nassiriya (12 novembre); il caporale dei lagunari Matteo Vanzan, ucciso in uno scontro a fuoco con i miliziani (16 maggio 2004); Antonio Amato, il giovane cuoco di Napoli ammazzato a colpi di pistola (e non a coltellate, come si disse) mentre cercava scampo durante l’attacco a un residence di al-Khobar, in Arabia Saudita (29 maggio); Fabrizio Quattrocchi ed Enzo Baldoni, di cui abbiamo parlato. E poi Ayad Anwer Wali, l’iracheno di 44 anni che viveva in Italia dal 1980 e stava per ottenere la cittadinanza, ucciso per ragioni oscure il 4 ottobre 2004 dopo essere stato sequestrato il 31 agosto. Eppure l’Italia, con il rilascio dei tre ostaggi salvati in giugno e delle due Simone, ha ottenuto risultati che nemmeno l’osservatore più ottimista avrebbe potuto immaginare.
Le vittime di omicidi o sequestri hanno suscitato nell’opinione pubblica italiana sentimenti di solidarietà molto differenti tra loro. I «mercenari» sono stati trattati come tali dalla stampa di sinistra più radicale e con controllato disgusto da grandi giornali «schizzinosi». Amato e le due sorelle piemontesi sono stati sepolti in fretta. Per le due Simone, invece, c’è stata una mobilitazione senza precedenti: sacrosanta, visto che si tratta di due donne e di due volontarie. Peccato che per giorni «l’Unità», «il manifesto» e, con prudenza appena maggiore, «la Repubblica» e il Tg3 abbiano dato credito alla tesi del «sequestro anomalo», forse nemmeno compiuto da terroristi. (Fausto Bertinotti, che, raccogliendo l’invito del governo alla collaborazione, aveva messo il ritiro delle truppe dall’Iraq al secondo punto dell’ordine del giorno facendolo precedere dalla sorte delle due Simone, fu dileggiato da altre forze della sinistra.)
Il problema è che veniva meno il teorema del «terrorista vendicatore», quello rivelato in Italia da un sondaggio trasmesso dal Tg2 il 22 settembre, durante il sequestro delle due Simone: il 4 per cento dei nostri connazionali considera i kamikaze degli «eroi» e il 9 dei «martiri». Il 13 per cento degli italiani, dunque, considera nobili le loro azioni. Anche quelle che, all’alba dell’11 marzo 2004, hanno ucciso 200 pendolari che sonnecchiavano sui treni di Madrid e, il 3 settembre 2004, a Beslan, nell’Ossezia del Nord, hanno massacrato 400 persone (il numero esatto non si conoscerà mai), di cui oltre un terzo bambini, per «sensibilizzare» l’opinione pubblica mondiale al problema della Cecenia oppressa dalla Russia di Putin. Non usò gli stessi metodi Adolf Hitler per dibattere della «questione ebraica»?
In Spagna è stato colpito José Maria Aznar, che patrocinò la guerra all’Iraq partecipando con Bush, Blair e Barroso al vertice delle Azzorre. Tuttavia, dopo che José Luis Rodriguez Zapatero ha vinto le elezioni del 14 marzo sull’onda emozionale dell’attentato e ha annunciato l’immediato ritiro delle truppe spagnole dall’Iraq, i terroristi autori della strage della stazione di Atocha sono stati ammazzati mentre preparavano un altro micidiale attentato. Dunque, il ritiro non era servito a niente? Perché il 20 agosto sono stati rapiti i due giornalisti francesi Christian Chesnot di «Radio France» e Georges Malbrunot del «Figaro» che avevano difeso le posizioni antibelliche del loro governo e il cui sequestro, paradossalmente, ha messo a nudo l’ostentato isolamento della Francia, che pure con solennità imperiale aveva chiamato a raccolta l’intero mondo arabo e perfino i terroristi di Hamas, ai primi posti nella lista nera d’Europa? Perché non si contano ormai gli ostaggi sgozzati e decapitati di ogni origine e provenienza, dall’odiata America al remoto Giappone, dalla «perfida Albione» all’Irlanda, inclusi i poveri camionisti nepalesi e turchi senza ideali, andati in Iraq solo per procurarsi un tozzo di pane?
Si può parlare di «guerra di religione»?
Sulla polemica più devastante di questo inizio di millennio aleggia la definizione proibita: «guerra di religione», che è una variante della «jihad», comunemente tradotta come «guerra santa».
Il 9 ottobre 2004 il presidente del Senato Marcello Pera ha detto in una conferenza a Palermo: «Vorrei cercare di capire perché, di questa guerra tra gruppi islamici e Occidente, in Occidente – e soprattutto in Europa – non si possa neppure parlare». E, infatti, fu subito zittito. La guerra contro Saddam Hussein ha certamente trasformato l’Iraq in una centrale terroristica, ma la guerra di al-Qaeda contro l’Occidente non è cominciata nel 2003, e nemmeno a New York nel 2001. Pera ricorda quanto è accaduto nei dieci anni precedenti: il primo attacco alle Torri Gemelle è del 1993, seguirono quello alla nave americana Cole e, nel 1998, gli attentati alle ambasciate americane a Dar-el-Salam e Nairobi. «Per ammazzare 12 diplomatici americani» ricorda Bernard Lewis, il maggior islamista vivente, nel suo La crisi dell’Islam «i terroristi non esitarono a massacrare più di 200 africani, molti dei quali musulmani, che si trovavano per caso nelle vicinanze.» Vi furono poi le stragi di Bali, Casablanca, Riyad, Giakarta, Ankara, Madrid, Taba…
Il ritiro delle truppe occidentali dall’Iraq sembra la grande emergenza del momento. Per alcuni, esso lascerebbe il paese in balìa della guerra civile e, soprattutto, ne farebbe una base terroristica permanente, come accadde per l’Afghanistan dei talebani che proteggevano bin Laden. Per altri, sunniti, sciiti e curdi farebbero la pace in cinque minuti e vivrebbero nei secoli felici e contenti. Ma, nell’ottica storica della jihad, questo significa guardare al dito e non alla luna. Dopo la strage di Madrid, al-Qaeda ha diffuso un documento in cui si legge: «Un ribaltamento degli equilibri mondiali era stato previsto. Verrà rovesciato l’intero assetto mondiale realizzato dall’Occidente con gli accordi di Vestfalia [firmati nel 1648, misero fine alla guerra dei Trent’anni tra Francia e Impero tedesco, stabilirono l’intesa dell’Impero con i francesi e le potenze protestanti, e consacrarono il principio della libertà religiosa] per dare spazio al Nuovo Ordine Mondiale guidato da un Grande Stato Islamico. Il confronto sarà durissimo e abbiamo previsto tutte le fasi … Ci vorranno anni, qualche decennio; l’impero americano sarà annientato e, con esso, si disgregherà tutto l’assetto europeo».
Noi disquisiamo sulle differenze tra Margherita e Comunisti italiani rispetto al ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, e qui si parla di ribaltare la storia. Con quali mezzi? Leggiamo quello che al-Qaeda scrisse nel 1993 in un manuale di addestramento: «Il confronto che si vuole aprire con i regimi apostati non è fatto di dibattiti socratici, né di ideali platonici o di diplomazia aristotelica. Conosce solo il dialogo delle pallottole, gli ideali dell’assassinio, delle bombe e della distruzione, e la diplomazia della mitragliatrice e del cannone». A proposito di «regimi apostati», leggiamo che cosa scrive Lewis: «Era perfettamente legittimo per i musulmani conquistare e governare l’Europa e gli europei e così abilitarli – ma non costringerli – ad abbracciare la vera fede. Era un delitto e un peccato per gli europei conquistare e governare i musulmani e, peggio ancora, cercare di fuorviarli. Dal punto di vista musulmano la conversione all’Islam è un beneficio per il convertito e un merito per chi lo converte. Secondo la legge islamica, la conversione dall’Islam a un’altra religione è apostasia: passibile di pena capitale tanto per chi si è fatto traviare quanto per chi ha traviato».
Il cammino è tracciato, ma la strada della riconquista dell’Occidente è lunga. Da dove cominciare? Il primo punto è la dissoluzione dello Stato d’Israele. Altro che il ritiro dai Territori e da Gaza decisi da Sharon: Israele deve scomparire dalle carte geografiche. (Questa sembra una tesi appesa alle nuvole, ma quanti sanno che, su 23 paesi della Lega araba, 18 non riconoscono tuttora lo Stato d’Israele e la risoluzione dell’Onu che gli ha dato vita nel 1947?) Il secondo punto è la cacciata degli occidentali dalla penisola arabica e, in genere, dal mondo musulmano, a meno che essi non siano completamente sottomessi. Il terzo è lo sbarco in Occidente. È possibile tutto questo? È accettabile?
Il 14 settembre 2004 «Il Foglio» di Giuliano Ferrara ha messo a confronto la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sancita dall’Onu nel 1948 e la Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell’Islam approvata dai 54 paesi della Conferenza islamica nel 1990. In quest’ultimo documento, annota Carlo Panella nel commentarlo, il giudizio sulla soppressione della vita umana e sull’integrità fisica delle persone è rimesso alla shari’ah, come del resto «tutti i diritti e le libertà enunciate nella presente Dichiarazione».
La shari’ah islamica è la legge canonica che nel mondo musulmano influenza direttamente la vita politica e privata. Elevando la shari’ah a «sola fonte di riferimento per l’interpretazione degli articoli della presente Dichiarazione», gli Stati contraenti cedono di fatto il potere politico e parlamentare alle università coraniche e ai dotti musulmani. Questo favorisce enormemente l’attività terroristica, perché si trova sempre qualcuno che legittima chi taglia una testa «nel nome di Dio potente e misericordioso». Come, dice un sondaggio, il 94 per cento di coloro che guardano l’emittente televisiva al-Jazeera.
Se bin Laden esalta la Svezia
La potenza del terrorismo è enorme, nelle armi e nei media. In questo senso, il messaggio televisivo di Osama bin Laden diffuso da al-Jazeera la notte del 29 ottobre 2004 è assolutamente magistrale. Per la prima volta, il ricchissimo sceicco leader di al-Qaeda non ha parlato da guerrigliero braccato (e vincente), ma da autentico leader politico. Un raffinato abito bianco ha sostituito la tuta mimetica, grandi fogli ordinati con il testo del discorso hanno preso il posto del consueto kalashnikov, un telone da scenografia televisiva ha rimpiazzato lo sfondo roccioso che aveva fatto «impazzire» gli esperti dei servizi segreti americani. La strage delle Torri Gemelle è stata rivendicata per la prima volta come scelta strategica meditata per quasi vent’anni (da quando gli israeliani attaccarono gli uomini di Arafat in Libano). La decisione (e la possibilità) di influenzare direttamente la campagna elettorale americana (senza peraltro riuscirci, vista la conferma di Bush) ha confermato la notevole libertà di manovra dello sceicco, che ha voluto rivolgere un esplicito quanto raffinato ammonimento agli europei. Abbiamo cambiato il governo spagnolo, possiamo massacrare di nuovo gli americani – era il senso politico del messaggio –, ma «non abbiamo colpito la Svezia».
La Svezia, dunque, deve essere per gli occidentali il modello. Un paese rigidamente neutrale, rimasto estraneo alla Nato anche dopo che questa ha incluso perfino tutte le Repubbliche ex sovietiche e si è imparentata con la stessa Russia. Eccoci arrivati al nocciolo della questione. Come collocarci? Il dialogo con il mondo musulmano moderato – in Italia e in Europa – è l’unica strada ragionevole. Ma in quale contesto? Che significa oggi «amare la pace», ammesso che esistano persone amanti della guerra? I sessant’anni di storia raccontati in questo libro possono aiutarci. I dittatori sovietici consegnavano il premio Lenin per la pace ai loro amici e agli occidentali che non ostacolavano la loro politica di potenza. Abbiamo visto con quanta forza Craxi dovette opporsi a Berlinguer per poter installare a Comiso i missili nucleari americani Pershing e Cruise come risposta ai missili russi SS20 puntati su di noi. Senza quei missili, senza una risposta militare effettiva che costrinse i paesi dell’Est a dissanguarsi in spese belliche, non sarebbero esplose le contraddizioni del mondo comunista che hanno portato alla caduta del Muro di Berlino. Siamo davvero convinti che un’Europa pacifista come la Svezia sconfiggerebbe il terrorismo islamico? Arginerebbe il disegno (secolare) di riconquista dell’Occidente di strateghi che cercano di condizionare la politica occidentale, ma – come la Chiesa cattolica – seminano per raccogliere nei secoli?
L’Afghanistan è stato a lungo un ricettacolo di contraddizioni, con i terroristi d’oggi blanditi ieri dagli americani perché facevano scattare le loro trappole contro l’Armata rossa. Tuttavia, vedere – nell’ottobre 2004 – 8 milioni di persone andare, anche a dorso di mulo e con lunghi viaggi, a deporre una scheda nell’urna per la prima volta nella storia di quel paese è stato uno spettacolo memorabile.
Il dopoguerra iracheno è orribile, ma dal 2003 la Siria ha cambiato politica, ha sostenuto ostentatamente i servizi italiani nello sventare il tremendo attentato alla nostra ambasciata a Beirut, e cerca una nuova collocazione in uno scacchiere vitale per il mondo intero. L’Iran – fulcro del fondamentalismo islamico – è rimasto sconvolto quando i terroristi iracheni hanno sequestrato il suo console a Baghdad. La Libia era al secondo posto, dopo l’Iraq, nella lista americana degli «Stati canaglia». «Oggi» mi dice Berlusconi «gli italiani espulsi dalla Libia in ricordo della nostra occupazione coloniale vi rientrano grazie all’accordo stipulato con Gheddafi. Gli stabilimenti dove sarebbe stato possibile produrre armi chimiche, oggi producono medicine per migliorare la vita delle popolazioni africane.» L’Italia ha patrocinato la fine dello storico embargo alla Libia, Giuseppe Pisanu sta intessendo rapporti strategici – con la mediazione libica – anche con una frangia musulmana di obbedienza tripolina più moderata degli wahabiti di obbedienza saudita.
È un delitto pensare che soltanto un Iraq ragionevolmente democratico dopo le elezioni del 2005 e amico dell’Occidente possa garantire un minimo di stabilità a un’area esplosiva?
Berlusconi: «Resteremo in Iraq se ce lo chiederanno»
Arriviamo dunque all’Italia. «È grave che sia cambiata la sua collocazione internazionale» mi dice Piero Fassino. «Per cinquant’anni la scelta europea e l’Alleanza atlantica sono stati complementari. Questo governo, invece, ha messo al primo posto l’alleanza con gli Stati Uniti, considerando l’Europa un impaccio. È un errore drammatico. Se c’è un paese che ha tratto benefici dall’Europa, questo è l’Italia. E il rapporto transatlantico – che io considero strategico – è più forte se è tra Europa e Stati Uniti, e non tra Stati Uniti e ogni singolo paese europeo.»
Eppure, un giorno lei mi disse che, se voi foste stati al governo, non avreste escluso l’invio di nostre truppe in Iraq. «L’avremmo fatto solo in un contesto di legalità internazionale sancito da una decisione Onu e di un impegno multilaterale. Sono tra quelli che hanno condiviso la nostra iniziativa militare in Kosovo e, quando ero al governo, ho contribuito personalmente all’invio di truppe in Bosnia, Macedonia, Albania. C’è chi dice per ragioni etiche: mai un uomo con il fucile in mano. Rispetto questa posizione, ma so che la politica può essere costretta anche a dover prendere un fucile in mano. Non è indifferente come lo fa.»
Che cosa avreste fatto in concreto? «Avremmo insistito perché gli ispettori dell’Onu continuassero nel loro lavoro: o le ispezioni avrebbero dato il risultato sperato, o avrebbero tolto a Saddam ogni alibi residuo. A quel punto, anche un’azione armata avrebbe trovato alle Nazioni Unite un consenso diverso e più largo. Non a caso Kofi Annan ha parlato di guerra illegale.»
Fassino, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, ha vissuto in prima persona la stagione del terrorismo brigatista come funzionario comunista a Torino. «Il terrorismo delle Brigate rosse» mi dice oggi «traduceva la sua follia ideologica nel colpire vittime mirate: il poliziotto e il magistrato come simboli dello Stato, il dirigente aziendale come simbolo delle multinazionali, il dirigente sindacale o il militante di partito, come Guido Rossa, perché “cane da guardia della borghesia”. Oggi la logica è diversa e la pericolosità è ancora maggiore. Sempre di più chi pensa che le sue ragioni siano ignorate ritiene che l’unico modo per farle riconoscere sia il ricorso al terrorismo. E, per questo, l’effetto deve essere il più dirompente possibile e avere il massimo di visibilità: le torri di New York, il metrò di Madrid, la scuola di Beslan, i grandi alberghi di Bali, Mombasa, Sharm el Sheik. La terribile novità è che tutti siamo diventati potenziali obiettivi. Venticinque anni fa, quando vedeva cadere un poliziotto, la gente pensava: è atroce, ma non spareranno a me. Oggi non è più così.»
È molto diverso anche lo scenario politico italiano. «Certo. Gli anni culminanti del terrorismo, a cavallo del sequestro Moro, erano quelli della solidarietà nazionale, del compromesso storico, della linea responsabile del sindacato, consacrata dalla svolta dell’Eur della Cgil di Luciano Lama. Con l’astensione sul governo Andreotti, il Pci era di fatto entrato nella maggioranza. Oggi abbiamo un sistema politico bipolare caratterizzato da un’aspra contesa tra maggioranza e opposizione. Moro era l’architetto di un disegno politico di convergenza tra centro e sinistra che i terroristi consideravano inaccettabile. Scendere in piazza insieme, per democristiani e comunisti era facile. Oggi la convergenza verificatasi nelle tre settimane del sequestro delle due Simone è avvenuta in uno scenario ben diverso, segnato dalla divaricazione dovuta al sistema bipolare e in un momento di aspra contesa parlamentare sulle riforme costituzionali. E tutto questo rende ancora più forte il valore di quanto è accaduto. Vista la divisione registratasi sulla guerra in Iraq, non era affatto scontata una così forte unità di intenti di fronte al rapimento delle due giovani volontarie. È un fatto molto positivo che l’interesse generale sia prevalso su legittimi interessi di parte.»
Non c’è dubbio che Berlusconi abbia rafforzato l’alleanza con gli Stati Uniti, ma all’accusa di aver stravolto la collocazione internazionale dell’Italia risponde negando di aver indebolito i nostri tradizionali rapporti con la Francia e con la Germania. «Non è vero che li abbiamo indeboliti» mi dice. «L’Italia ha difeso la sua identità e la sua autonomia svolgendo da protagonista la sua politica estera. È ascoltata e seguita da altri paesi, ma mantiene eccellenti rapporti bilaterali anche con la Francia e con la Germania.»
A proposito di «protagonismo» nella politica estera, Berlusconi rivendica a sé il merito di aver messo alla guida della Commissione europea l’ex primo ministro portoghese José Manuel Barroso. Dopo le elezioni europee, Francia, Germania e Belgio avevano proposto un candidato dello schieramento liberale, mentre il Cavaliere ha insistito perché fosse indicato un popolare, visto che il Ppe è la forza politica di maggioranza relativa al Parlamento di Strasburgo. Si è assicurato anche qualche voto socialdemocratico – ha raccontato ai suoi – e l’ha spuntata. Nessuno immaginava, allora, che la nascita della Commissione sarebbe stata così faticosa e così ritardata rispetto alle scadenze istituzionali. Comunque, la firma a Roma della Costituzione europea il 29 ottobre è stato un evento memorabile. «Era doveroso che la firma si tenesse a Roma» mi dice il Cavaliere. «L’Irlanda ha raccolto i frutti del lavoro che abbiamo svolto durante il semestre di presidenza italiana. Restava da trovare l’accordo sul sistema di voto. La nuova posizione della Spagna di Zapatero ha reso possibile l’intesa.»
Resta l’angoscia sull’Iraq. Chiunque conosca un poco Berlusconi sa che non gli piace calzare l’elmetto. «È noto» mi ripete «che ho cercato di convincere il presidente Bush a rinunciare all’intervento militare, ma la decisione era già stata presa. Siamo in Iraq per svolgere esattamente lo stesso compito che abbiamo svolto e svolgiamo in Afghanistan, in Kosovo, in Bosnia, in Macedonia, in Albania, e ci muoviamo con la copertura di tre diverse risoluzioni assunte all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.»
È ipotizzabile un calendario di rientro? «In accordo con il nuovo governo iracheno eletto all’inizio del 2005, diminuiremo gradualmente la nostra presenza compatibilmente con le esigenze di ordine pubblico. Resta inteso che saremo disposti a lasciare subito il paese se il governo iracheno ce lo chiedesse.»